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Notizie dal 32° Congresso Nazionale SISA - 26 novembre - Parte 1

 

 

Inquinamento ambientale e patologia cardiovascolare


È noto che l’esposizione al particolato (PM) aumenta il rischio cardiovascolare, effetto che sembra essere mediato dalle cosiddette vescicole extracellulari (EV), strutture che trasportano un numero elevato di componenti. Lo studio SPHERE ha valutato la produzione di EV in soggetti obesi esposti a vari gradi di inquinamento ambientale in Lombardia. I soggetti obesi hanno rischio cardiovascolare aumentato, sono caratterizzati da uno stato infiammatorio cronico ed è stato dimostrato che introducono maggiore quantità di PM tramite la respirazione. L’ipotesi valutata in questo studio è che l’esposizione a PM attivi le vescicole extracellulari e si è effettivamente osservato che le vescicole si attivano il giorno successivo all’esposizione. EV sono state caratterizzate per il loro contenuto ed è stata riportata anche la presenza di microRNA, di cui 9 sono risultati ridotti in seguito a esposizione a PM. Di questi 9 microRNA, 5 spiegano gli effetti sull’aumento fibrinogeno osservati in soggetti esposti a PM. Questa è la risposta che si osserva in acuto. Poco si sa cosa succede a lungo termine; l’attivazione delle EV potrebbe modulare l’espressione di altre componenti in grado di mediare effetti a lungo termine dell’esposizione a PM. Ad esempio si è osservato un aumento di PCSK9 in un gruppo di obesi non diabetici esposti a inquinamento ambientale.

 

 

La terapia di associazione nella prevenzione cardiovascolare

Nonostante la progressiva riduzione della mortalità in pazienti ospedalizzati per ACS, la mortalità a 30 giorni è in aumento nell’ultimo decennio. Questi soggetti hanno quindi un rischio cardiovascolare molto elevato, e l’incidenza di eventi futuri può essere anche maggiore in presenza di comorbidità quali diabete o malattia renale. In questa popolazione la colesterolemia influenza particolarmente l’incidenza degli eventi. Per questo motivo occorre intervenire con terapie efficaci nel ridurre i livelli plasmatici di colesterolo, quali statine alla dose più alta tollerabile (le più indicate sono rosuvastatina e atorvastatina che garantiscono riduzioni maggiori), eventualmente in combinazione con ezetimibe, e se necessario, con inibitori di PCSK9. Diversi studi condotti in pazienti post ACS hanno dimostrato che, al follow-up, la maggior parte dei pazienti non è a target per i livelli di LDL-C nonostante la terapia ipocolesterolemizzante, che evidentemente non è ottimale. Queste osservazioni suggeriscono la necessità di intervento precoce

e ad alta intensità e possibilmente di combinazione per migliorare prevenzione secondaria in questi soggetti.

La terapia di combinazione è utile perché combina meccanismi d’azione diversi; ad esempio, l’associazione statina+ezetimibe riduce efficacemente i livelli di LDL-C in quanto interviene sia sul meccanismo di sintesi che su quello di assorbimento del colesterolo a livello intestinale. L’aggiunta di ezetimibe a una statina determina una riduzione ulteriore dei livelli di LDL-C pari al 20% indipendentemente dalla dose e dal tipo di statina utilizzata, mentre raddoppiando la dose di statina si ha una riduzione ulteriore pari al 5-6%. I soggetti indicati per la terapia di combinazione sono soprattutto quelli ad alto rischio, ma difficilmente nella pratica clinica si riesce a raggiungere il target. La terapia di combinazione è molto efficace nei pazienti diabetici, in cui si riesce ad ottenere una riduzione dei livelli di LDL-C maggiore di quella osservata in pazienti non diabetici. Inoltre, mentre le statine aumentano l’insorgenza di diabete, l’aggiunta di ezetimibe a una statina può avere effetto favorevole su questo parametro. Infine, la terapia di combinazione riduce significativamente anche i livelli di CRP; i soggetti che raggiungono entrambi i target (LDL-C e CRP) sono quelli che hanno maggior beneficio clinico.

L’effetto della combinazione statina+ezetimibe su altri parametri è più controverso, perché mentre in alcuni studi non si è osservato effetto sull’IMT (anche se è possibile che l’effetto sia non tanto sulla dimensione della placca ma sulla sua composizione), altri studi hanno mostrato un effetto positivo anche su questo parametro. L’associazione statina+fibrato sembra aumentare la reattività vasale, ma non ha effetto su IMT; l’aggiunta di niacina a una statina riduce IMT nella popolazione dello studio ARBITER, in particolare nel sottogruppo dei diabetici; anche l’aggiunta di EPA sembra ridurre l’infiammazione e la dimensione della placca, e ne aumenta la stabilità. Infine, l’aggiunta di un anticorpo anti-PCSK9 riduce la placca aterosclerotica, come dimostrato nello studio GLAGOV.

 

 

 

La terapia con evolocumab nella prevenzione cardiovascolare

Ridurre i livelli di LDL-C è l’approccio principale per ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari. Un approccio recente per ottenere riduzione dei livelli di LDL-C è l’inibizione di PCSK9. La genetica ha mostrato che soggetti con varianti gain-of function di PCSK9 hanno ridotta espressione di LDLR a livello epatico, ipercolesterolemia e aumentato rischio cardiovascolare, mentre soggetti portatori di varianti loss-of-function hanno aumentata espressione di LDLR, ridotti livelli di LDL-C e ridotta mortalità cardiovascolare; queste osservazioni hanno indicato PCSK9 come target terapeutico per il trattamento dell’ipercolesterolemia. Esistono molti approcci per inibire PCSK9, alcuni dei quali già approvati (anticorpi monoclonali), altri ancora in fase di sviluppo e sperimentazione. Inclisiran e un siRNA porgettato per inibire PCSK9 a livello epatico. Riduce significativamente PCSK9 e LDL-C, e la riduzione della colesterolemia (circa 50%) si mantiene nel tempo. Al momento non sembrano esserci indicazioni di eventi avversi legati alla terapia con inclisiran, nemmeno quelli riguardanti la trombocitopenia osservata con le prime formulazioni di antisenso. Un altro approccio promettente è quello con vaccino, in cui si inietta un peptide simile a PCSK9 per indurre una risposta anticorpale. Nel modello animale si è osservata riduzione della colesterolemia; dati dello studio di fase 1 hanno mostrato una riduzione dei livelli di LDL-C pari al 13% (ottenuto in soggetti con normali valori di LDL-C). Tra gli anticorpi monoclonali anti-PCSK9, lo sviluppo di bococizumab è stato sospeso a causa dell’elevata presenza di anticorpi neutralizzanti in una elevata percentuale di pazienti trattati, probabilmente a causa delle caratteristiche del farmaco (anticorpo umanizzato).

I livelli plasmatici di PCSK9 sono un buon predittore di eventi cardiovascolari, ma questa capacità predittiva viene persa quando corretti per livelli di LDL-C circolante; nonostante questo PCSK9 è un ottimo target farmacologico. Le metanalisi mostrano l’efficacia ipocolesterolemizzante di evolocumab con entrambe le dosi testate, con riduzione del 59% stabile nel tempo fino a oltre 4 anni. Molti soggetti raggiungono livelli molto bassi di LDL-C, che però non sembrano determinare problemi di sicurezza. Questo è stato determinato sia tramite l’osservazione che portatori di due varianti inattivanti nel gene PCSK9 con livelli di LDL-C pari a 14 mg/dl sono in salute, sia tramite le osservazioni derivanti da studi specifici che hanno dimostrato l’assenza di problemi cognitivi e nessun aumento di insorgenza di nuovi casi di diabete in soggetti con livelli molto bassi di LDL-C. In termini di impatto cardiovascolare, l’analisi ad interim dei vari studi suggeriva possibili riduzioni del 50%; in realtà, la riduzione del rischio cardiovascolare è inferiore (15% per endpoint primario e 20% per secondario), nonostante il forte impatto sui livelli di LDL-C. Altri parametri influenzano l’impatto sugli eventi cardiovascolari, tra cui LDL-C basale e durata del trattamento (maggiore è la durata, maggiore la riduzione rischio). Nel primo anno la riduzione degli eventi non è così importante come negli anni successivi, probabilmente legato all’effetto sulla placca che richiede tempo. Evolocumab è efficace anche in pazienti con PAD senza pregresso infarto del miocardio o ictus. Può avere effetto anche in altri gruppi di pazienti quali quelli con sepsi o HIV.

Soggetti ideali per la terapia anti PCSK9 sono determinati in modo diverso secondo le linee guida e con diversi gradi di evidenza. Interessante la nota AIFA che si allinea alle linee guida europee ma con criteri più permissivi, comunque sempre dopo trattamento iniziale con massima dose di statina tollerata e eventualmente aggiunta di ezetimibe. Uno studio italiano ha mostrato che l’accessibilità al trattamento con questi anticorpi è molto eterogenea tra le regioni. Più alto è il numero di centri prescrittori più è alto il numero di pazienti trattati con evolocumab. Anche il numero dei medici prescrittori è correlato al numero
di pazienti trattati. Infine, a fine 2017, solo 6% dei pazienti eligibili per il trattamento con anticorpi anti-PCSK9 riceve questo trattamento.

 

 

 

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