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Silvia Valentini, Clinica Medica I, Azienda Ospedaliera di Padova
Com'è noto le statine sono tra i farmaci di maggiore utilizzo nei nostri tempi, data la loro stabilita efficacia nella prevenzione primaria e secondaria degli eventi cardiovascolari. Tali molecole infatti migliorano il metabolismo lipidico riducendo la quota di colesterolo LDL, nonché di LDL piccole e dense e trigliceridi. Non meno importanti poi sono le loro proprietà antiinfiammatoria, antiossidante e antitrombotica, nonché la loro azione diretta stabilizzatrice sulla placca aterosclerotica e sulla vasoattività endoteliale (1).
Diversi trial clinici e meta-analisi condotte fino ad ora però evidenziano altre caratteristiche secondarie delle statine con risultati spesso contradditori. Basti pensare all'associazione più volte paventata tra statine e malattia neoplastica. A tal proposito infatti numerosi studi in vitro e clinici hanno messo tali molecole sia in relazione con un aumento che con una diminuzione del rischio tumorale e una recente review, nell'analizzare la bibliografia, conferma che le informazioni a riguardo sono ancora contrastanti e necessitano di ulteriori e più specifici studi di apporofondimento (2).
Ho letto perciò con molto interesse l'articolo scritto da J Hippisly-Cox e C Coupland riguardante gli effetti secondari delle statine sulla popolazione di Inghilterra e Galles perché l'analisi che questi autori svolgono risulta ampia e dettagliata e mette in luce le proprietà secondarie di questi farmaci nella popolazione generale (con un range di età ampio, tra i 30 e gli 84 anni).
L'investigazione che J Hippisly-Cox e C Coupland hanno condotto è uno studio prospettico di coorte su pazienti inseriti nel database di tutti i 368 medici di medicina generale di Inghilterra e Galles collegati al sistema informativo EMIS da almeno un anno, ponendo a confronto coloro che a partire dal gennaio 2002 fino alla fine del 2008 hanno iniziato l'assunzione di statine, rispetto a quelli che nello stesso intervallo di tempo non hanno assunto tale terapia. Ne risulta una popolazione di ben 2004692 pazienti complessivi di cui 225922 sono coloro che hanno iniziato una terapia con statine.
Lo studio, che presenta il vantaggio di esaminare soggetti osservati nella pratica clinica quotidiana anziché selezionati per un trial clinico, conferma che le statine riducono il rischio di sviluppare malattia cardiovascolare (con una riduzione relativa del rischio del 24%, pari a quella osservata nello studio HPS, e NNT simile nei due sessi e anche considerando diversi cutoff di rischio vascolare, 15 o 20%), ma si associano ad un aumentato rischio di disfunzione epatica, insufficienza renale acuta, miopatia e cataratta. Questo ultimo dato in particolare risulta nuovo e in contrasto con precedenti studi che invece davano un ruolo protettivo per le statine nei confronti della cataratta (soprattutto di quella nucleare).
Gli autori analizzano poi i principali outcome clinici positivi e negativi che nella letteratura precedente erano stati imputati alla terapia con statine rilevando che tali molecole non confermano un ruolo protettivo nei confronti di Morbo di Parkinson, tromboembolismo venoso, artrite reumatoide, fratture osteoporotiche e demenza. D'altro canto la loro analisi non riscontra nessuna associazione tra statine e rischio di tumore (considerando le neoplasie maligne più comuni, ossia melanoma, cancro dello stomaco, polmonare, renale, mammario e prostatico). Questi farmaci sarebbero poi protettivi per lo sviluppo del cancro esofageo (sia pure con NNT molto elevato), mentre risultati contrastanti sono stati riscontrati nei confronti del carcinoma del colon per i pazienti di sesso maschile con un rischio diminuito tra coloro che assumono pravastatina e aumentato nei pazienti in trattamento con rosuvastatina (l'associazione non sarebbe invece significativa per le donne). Gli autori commentano questi ultimi risultati imputandoli a un possibile dato casuale per il largo numero di outcome considerati nel loro studio. Relativamente nuova è l'osservazione di un maggior numero di casi di miopatia nel sesso maschile rispetto a quello femminile e di una relativa maggiore epatotossicità della fluvastatina a confronto con le altre statine.
L'unico elemento su sui mi permetto di avanzare una critica negativa nell'analisi condotta in questo articolo riguarda la significatività statistica considerata dagli autori: J Hippisly-Cox e C Coupland ritengono come significativi solo i risultati con una p<0.01 eliminando in tal modo dalle loro considerazioni tutte le analisi con una p<0.05, valore comunemente utilizzato come cut-off per la significatività statistica. Ne deriva quindi una possibile sottostima delle reali associazioni tra statine e outcome secondari.
Bibliografia
1) Gli effetti delle statine su parametri non lipidici
Redazione scientifica di Adis WKH, Italy
Lipid Disorders 2005; 1: 4-5
2) A clinical review of statins and cancer: helpful or harmful?
Gonyeau MJ, Yuen DW
Pharmacotherapy. 2010;30:177-94
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