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Batteri intestinali e malattie metaboliche

Adriana Branchi, Centro per lo Studio e la Prevenzione dell'Aterosclerosi, Dipartimento di Medicina Interna, Università di Milano, Fondazione IRCCS Ca' Granda - Ospedale Maggiore Policlinico, Milano

 

Quante volte ci è capitato nella pratica clinica di avere a che fare con pazienti obesi che sostengono che loro ingrassano anche con un bicchiere di acqua e di guardarli con ironico sguardo accondiscendente? Che abbiano ragione loro? Non certo per l'acqua, ma dalle ultime novità in campo metabolico le loro giustificazioni potrebbero non essere completamente sbagliate.
Recenti studi hanno evidenziato che ciascuno di noi è dotato fin dalla nascita di una personale flora batterica intestinale: il microbioma che sembra favorire l'assorbimento dei nutrienti e quindi la tendenza ad aumentare di peso. In altri termini, lo stesso apporto nutrizionale potrebbe avere effetti differenti nelle persone a seconda della composizione della loro flora batterica intestinale. Nell'animale è stato dimostrato che le variazioni quantitative e qualitative della microflora sono effettivamente in grado di influenzare l'assorbimento dei nutrienti e la disponibilità energetica. Conviviamo con un numero impressionante di batteri (sono oltre 1.000 specie diverse per un totale di parecchie centinaia di miliardi di individui) che colonizzano quasi tutti i distretti corporei, dalla pelle, all'apparato respiratorio e, naturalmente, al gastroenterico. La colonizzazione avviene già al momento del parto, ad opera dei batteri materni e incrementa a dismisura nelle ore e nei giorni successivi per trasmissione di ceppi batterici da parte delle persone che entrano in contatto con il bambino e da parte dell'ambiente circostante.
La flora batterica ha una diversa composizione nei differenti tratti dell'intestino: è molto scarsa nello stomaco, duodeno e digiuno dove è rappresentata da batteri aerobici gram-positivi di origine orofaringea. Nell'ileo c'è un netto incremento della concentrazione batterica (105-109 per gr.), rappresentata principalmente da coliformi e, infine, dopo la valvola ileocecale c'è un ulteriore incremento di batteri (109-1012) tra cui predominano bacteroidi, bifidobatteri, clostridi e lattobacilli. La ricerca sull'animale ha già documentato l'importanza dell'ecosistema batterico. In topi obesi è stato osservata una significativa riduzione dei batteri appartenenti alla famiglia dei batteroidi e un proporzionale aumento dei firmicuti. Una tale variazione quali e quantitativa porterebbe ad una aumentata estrazione di energia dalla dieta ottenendo calorie anche da cibi che ne forniscono poco come ad esempio le fibre. Interessante è che in questi animali una dieta a basso contenuto calorico è in grado di ristabilire un adeguato rapporto bacteroidi/firmicuti inducendo una riduzione di peso.
In altri studi, questa volta nell'uomo, è stato osservato che la concentrazione di bifidobatteri era più alta nei bambini con un peso corporeo normale a 7 anni rispetto ai bambini che avevano poi sviluppato obesità. Al contrario il contenuto fecale di stafilococco aureo era più basso in bambini che sono poi rimasti magri nel corso della loro vita rispetto ai bambini che sono diventati obesi, suggerendo come il microbioma dell'infanzia possa avere un impatto sul rischio di una successiva obesità. D'altro canto esistono anche studi che hanno evidenziato come differenti diete (per esempio ad alto contenuto di grassi) possano influenzare la composizione della flora batterica intestinale.
Uno dei vari meccanismi conosciuti attraverso i quali la flora batterica intestinale potrebbe influenzare l'obesità e le malattie metaboliche ad essa correlate è stato individuato nella produzione di lipopolisaccaride (LPS) che svolge un ruolo nell'infiammazione cronica sistemica ed è stato correlato con lo sviluppo di insulino-resistenza, alterata tolleranza glucidica oltre che di steatosi epatica (NASH).
Nel loro studio, Lassenius et al. si propongono di confrontare l'attività di LPS batterica nel siero con le componenti della sindrome metabolica in pazienti con diabete di tipo 1 con differente grado di patologia renale e pazienti affetti da glomerulonefite IgA (IgAGN). Già osservando la casistica si vede come al peggiorare della funzionalità renale da normale a micro e macroalbuminuria è presente un significativo aumento dell'indice di massa corporea, della pressione arteriosa sia sistolica che diastolica, della trigliceridemia e una riduzione significativa del colesterolo HDL, cioè una variazione degli elementi costitutivi della sindrome metabolica. La frequenza della sindrome metabolica era del 41% nei soggetti diabetici e di solo il 15% nei pazienti con IgAGN. I pazienti con macroalbuminuria mostravano una concentrazione di LPS e del rapporto LPS/HDL maggiore che i normo e microalbuminemici e tra i pazienti diabetici normoalbuminurici, quelli nel più alto quartile di LPS/HDL avevano una frequenza tre volte superiore di sindrome metabolica rispetto ai pazienti nel primo quartile. Nel loro insieme i risultati di questo studio dimostrano che le endotossine derivate dai batteri gram negativi dell'intestino sono fortemente associate alla sindrome metabolica e sembrano esserlo anche allo sviluppo delle alterazioni microangiopatiche.
Il microbioma sembra dunque svolgere un importante ruolo non solo nell'assetto nutrizionale con propensione per l'obesità e le malattie metaboliche ad essa associate, ma anche in una serie di eventi patologici conseguenti forse direttamente alle stesse endotossine prodotte nell'intestino. Ogni individuo ha un proprio microbioma in parte "fisso", fortemente legato ad una predisposizione genetica ed in parte "variabile" nel corso della vita per effetto di fattori diversi, anche alimentari.
Forse gli obesi non hanno tutti i torti. E' verosimile che fattori genetici e microbioma interagiscano e si potenzino nel processo di accumulo di energia, ma non bisogna dimenticare che in questo processo contribuiscono in modo pesante anche fattori comportamentali quali attività fisica ed alimentazione.

 

 

Bacterial endotoxin activity in human serum is associated with dyslipidemia, insulin resistance, obesity, and chronic inflammation
Lassenius MI, Pietiläinen KH, Kaartinen K, Pussinen PJ, Syrjänen J, Forsblom C, Pörsti I, Rissanen A, Kaprio J, Mustonen J, Groop PH, Lehto M; FinnDiane Study Group.

Diabetes Care 2011;34:1809-15

 

 

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