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Anno 15 • N.3/2024
Domenico Sommariva - Responsabile Editoriale WEB per il sito SISA
Sotto la denominazione comune di ipercolesterolemia familiare vengono comprese almeno tre forme distinte di ipercolesterolemia genetica a trasmissione autosomica dominante, caratterizzate tutte da un difetto di rimozione dal plasma delle lipoproteine ricche in colesterolo (LDL). La forma di gran lunga più comune (1 su 500 persone per la forma eterozigote e 1 su 1.000.000 per quella omozigote) è quella classica e cioè quella dovuta ad un difetto dei recettori per le LDL. Sono molte e differenti le mutazioni finora documentate. In Italia ne sono state censite almeno 180 che interessano tappe diverse del complesso meccanismo di sintesi, trasporto e funzione del recettore LDL e danno luogo a ipercolesterolemie di diversa gravità. Meno comune (1 su 1.000 persone per la forma eterozigote e 1 su 1.000.000 per quella omozigote) è la forma dovuta ad una mutazione del gene che codifica per l'apoproteina B con la produzione di un'apoproteina anomala che non viene più riconosciuta dal recettore LDL. La terza forma, che è piuttosto rara e di cui non si conosce ancora la prevalenza nella popolazione, è dovuta ad una mutazione del gene che codifica per un enzima, il PCSK9 (Proprotein convertase subtilisin/kexin type 9 serine Protease), deputato alla degradazione dei recettori LDL. La mutazione comporta un guadagno di funzione, in altri termini il PCSK9 è più attivo determinando una precoce degradazione del recettore LDL con conseguente accumulo di LDL in circolo.
Per i pazienti con ipercolesterolemia familiare omozigote esistono poche possibilità terapeutiche. La terapia farmacologica è di poca o nessuna utilità e si ricorre in generale alla LDL aferesi, ma sono in studio anche altre forme più innovative di trattamento quali il trapianto di fegato e la terapia genica. Più favorevole è il panorama per l'ipercolesterolemia familiare eterozigote che beneficia, seppure in misura ridotta rispetto alle altre forme di ipercolesterolemia, di statine, ezetimibe, sequestranti gli acidi biliari e acido nicotinico usati più spesso in associazione. E' comunque piuttosto raro che con questi farmaci si riesca a raggiungere l'obiettivo terapeutico, lasciando così il paziente ad un livello di rischio elevato. Nei casi più resistenti si può ricorrere alla LDL aferesi come per l'omozigote, ma questo tipo di trattamento è invasivo, costoso, poco gradito dai pazienti e non sempre disponibile.
Una nuova forma di terapia per questi pazienti difficili che sono meno rari di quanto comunemente si pensi, è rappresentata dagli anticorpi monoclonali anti-PCSK9. Il blocco di PCSK9 comporta una più lunga durata e perciò una maggiore efficienza dei recettori LDL con conseguente riduzione del colesterolo LDL. Questo non vale solo per quelle rare forme di ipercolesterolemia familiare dovute all'iperattività di PCSK9, ma anche per le altre forme eterozigoti. In particolare in quella più comune da difetto recettoriale, nella quale il difetto genetico non abolisce completamente la produzione e la funzione recettoriale, come avviene nell'omozigote, ma lascia attiva una parte dei recettori variabile a seconda dell'anomalia genetica di base. Se la residua capacità recettoriale può svolgere la sua funzione per un tempo più lungo, grazie alla soppressione di PCSK9, la colesterolemia scende. Non è difficile neanche ammettere una base razionale dell'uso degli anticorpi monoclonali nell'ipercolesterolemia familiare da difetto dell'apoproteina B. In questa situazione i recettori LDL sono normalmente prodotti e funzionanti, ma incapaci di legare le LDL circolanti per un difetto dell'apoproteina B. Ma anche in questo caso si deve considerare che nelle forme eterozigoti, accanto alla produzione di apoproteina B anomala vi è anche quella di apoproteina normale, per cui la ridotta degradazione dei recettori LDL aumenta la rimozione di quel 50% di LDL con apoproteina B normale. L'effetto finale è dunque una riduzione delle LDL circolanti.
Nello studio di Stein e coll. i pazienti con ipercolesterolemia familiare eterozigote, già in terapia con dosi massimali di statine con o senza ezetimibe, cui sono stati somministrati gli anticorpi monoclonali anti PCSK9 hanno avuto una riduzione del colesterolo LDL variabile dal 29% al 68%, a seconda della dose dell'anticorpo somministrata. Significative diminuzioni si sono osservate anche per il colesterolo non-HDL e per l'apoproteina B, mentre la lipoproteina (a) si è pure ridotta, ma in modo non significativo. Di rilievo è stato anche l'aumento del colesterolo HDL. Buona la tolleranza.
Siamo soltanto agli inizi, ma questa nuova forma di terapia di una patologia ad alto rischio e spesso non controllabile con i comuni mezzi terapeutici, promette buoni risultati e coniuga efficacia e tollerabilità, almeno nel breve termine. La dose più efficace è risultata quella di 150 mg sottocute ogni 2 settimane. La via di somministrazione, che qualche volta ha determinato modeste reazioni locali, non sembra un ostacolo alla sua introduzione nella pratica clinica. Sono necessari però altri studi per confermare l'efficacia e la tollerabilità degli anticorpi monoclonali anti-PCSK9 su casistiche più ampie e con trattamenti più prolungati. Ma già ora sembra di poter dire che le promesse di questo tipo di terapia sono superiori a quelle di altri farmaci attualmente in fase sperimentale, come l'apoproteina B antisenso, il mipomersen e la lomitapide, per lo meno in quanto ad efficacia.
Effect of a monoclonal antibody to PCSK9, REGN727/SAR236553, to reduce low-density lipoprotein cholesterol in patients with heterozygous familial hypercholesterolaemia on stable statin dose with or without ezetimibe therapy: a phase 2 randomised controlled trial
Stein EA, Gipe D, Bergeron J, Gaudet D, Weiss R, Dufour R, Wu R, Pordy R.
Lancet 2012;380:29-36
Bologna, 1-3 dicembre 2024
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