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Anno 15 • N.3/2024
Adriana Branchi, Adriana Torri - Centro per lo Studio e la Prevenzione dell'Aterosclerosi, Dipartimento di Medicina Interna, Università di Milano, Fondazione IRCCS Ca' Granda - Ospedale Maggiore Policlinico, Milano
Un recente studio eseguito in 21 paesi diversi ha dimostrato che dal 1990 al 2010 la mortalità per cardiopatia ischemica si è ridotta del 46% in Europa occidentale, del 43% nell'America del nord e del 51% nella regione australasiatica (1). Nello stesso periodo la prevalenza del diabete nella popolazione mondiale è all'incirca raddoppiata, attestandosi a oltre il 5% della popolazione, secondo i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità. Le proiezioni per gli anni a venire stimano un ulteriore raddoppio della prevalenza del diabete entro il 2030 per un totale di 370 milioni nel mondo.
Più del 70% dei diabetici muore per cause cardiovascolari e l'aumento del numero dei diabetici nei prossimi anni farà sì che il trend verso la diminuzione della mortalità per malattie cardiovascolari, osservato negli ultimi decenni, si attenui o addirittura si inverta se non si troverà il modo di prevenire l'insorgenza del diabete e/o di ridurne gli effetti proaterogeni. Sono tre i fattori di rischio nel diabetico su cui è stata puntata principalmente l'attenzione sulla base dei risultati di numerosi studi di intervento nei non diabetici: quadro lipidico, ipertensione e glicemia. La terapia ipolipidemizzante, specie con statine, ha dato prova di efficacia nel prevenire gli eventi cardiovascolari nel diabetico, tanto che è stata inserita tra le raccomandazioni più pressanti nelle linee guida congiunte della Società Europea per lo Studio dell'Arteriosclerosi e di quella di Cardiologia (2). Anche la terapia dell'ipertensione è annoverata a buon diritto tra i mezzi atti a ridurre il rischio cardiovascolare nei diabetici, ma qualche dubbio rimane sugli obiettivi. In considerazione dell'alto rischio del diabetico, in alcuni studi si è provato a raggiungere valori pressori inferiori a 130/85 mmHg, ma i risultati non sono stati soddisfacenti, anzi, in qualche caso, sono stati negativi e attualmente si preferisce una terapia meno aggressiva limitata al raggiungimento di valori di pressione intorno a 140/90 mmHg (3).
Quanto alla glicemia, nessun dubbio che questa debba essere ben controllata. Il problema è fin dove si deve spingere la terapia. Sono numerose e molto consistenti le prove di una stretta associazione tra controllo metabolico ed eventi cardiovascolari e lo studio di Zhao e coll, (4), condotto su oltre 30.000 diabetici, aggiunge nuova forza alla relazione tra controllo della glicemia e rischio di cardiopatia ischemica. Oltre al consistente numero di pazienti e al discretamente lungo periodo di osservazione (in media 6 anni), uno degli aspetti più interessanti dello studio è il fatto che il compenso metabolico dei pazienti è stato valutato non solo al momento dell'arruolamento, come è avvenuto in numerosi studi precedenti, ma anche durante il periodo di osservazione con ripetute determinazioni di HbA1c. Uno dei problemi nella valutazione dell'equilibrio glicemico, che è piuttosto variabile anche nei pazienti ben controllati, sta proprio nel numero dei controlli durante il periodo di studio. Più sono i controlli, più attendibile è il giudizio sull'equilibrio metabolico complessivo nel periodo. All'analisi multivariata, dopo aggiustamento per variabili influenti come età, sesso, assicurazione malattie, fumo, indice di massa corporea, colesterolo LDL, colesterolo HDL, trigliceridi, pressione sistolica, filtrato glomerulare e uso di farmaci anti-ipertensivi, ipoglicemizzanti e ipocolesterolemizzanti, l'associazione tra HbA1c e cardiopatia ischemica è risultata altamente significativa, con un rischio minimo per HbA1c <6% e progressivamente crescente per valori più alti. Currie e coll. (5) avevano però osservato in uno studio retrospettivo che aveva coinvolto quasi 28.000 diabetici, che il rischio era più basso per un valore di HbA1c di 7.5% ed era più alto per valori inferiori e maggiori.
Se lo studio di Zhao e coll (4) ha dimostrato una robusta relazione tra compenso metabolico del diabete e rischio di cardiopatia ischemica, con il rischio più basso per valori di HbA1c <6.0% e con un aumento progressivo del rischio per valori più alti (per ogni 1% di aumento della HbA1c, il rischio aumentava del 2% nella popolazione americana nera e del 6% in quella bianca), ci si attende che una terapia che controlli bene il diabete e che porti ad un valore medio di HbA1c inferiore al 6%, si associ ad una riduzione del rischio che arrivi possibilmente a livelli simili a quelli della popolazione non diabetica. In realtà questo non accade. Dei cinque grossi studi che hanno valutato gli effetti di una terapia intensiva indirizzata al controllo attento della glicemia, tre, ADVANCE (6), VADT (7) e ACCORD (8) hanno dato risultati deludenti o addirittura negativi. Per ADVANCE, il livello di HbA1c raggiunto nel gruppo in terapia intensiva è stato del 6.5% e per VADT del 6.9%. Per ambedue le conclusioni erano che non c'è stata nessuna riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori, della mortalità cardiovascolare e della mortalità per tutte le cause nel gruppo in terapia intensiva rispetto a quello in terapia tradizionale. Per ACCORD, i risultati sono stati addirittura negativi per un eccesso di mortalità nel gruppo in terapia intensiva in cui il livello di HbA1c raggiunto era <6.5%.
Nell'UKPDS, un altro dei più noti studi che hanno messo a confronto la terapia aggressiva con quella convenzionale nei diabetici di tipo 2, alla fine del periodo sperimentale di 5 anni si è osservato che lo stretto controllo della glicemia, oltre ad una marcata riduzione delle complicanze microvascolari, aveva determinato anche una diminuzione del 16% dell'incidenza di infarto del miocardio che rasentava solo la significatività statistica. Con il prosieguo dell'osservazione per altri 5 anni, in terapia più libera, si è potuto rilevare che i pazienti che durante la fase sperimentale avevano fatto parte del gruppo intensivo, con un livello di HbA1c di circa il 7%, pur non avendo più un livello di HbA1c più basso di quelli che avevano fatto parte del gruppo di terapia convenzionale (intorno all'8%), avevano avuto una riduzione significativa del rischio di infarto e di morte per tutte le cause (9). Risultati analoghi sono stati ottenuti nel DCCT, che aveva arruolato 1.441 pazienti con diabete di tipo 1. Nel gruppo in terapia intensiva, in cui si era ottenuto un livello medio di HbA1c intorno al 7%, si è verificata una riduzione marcata delle complicanze microangiopatiche e neuropatiche, ma non di quelle cardiovascolari. Dopo la conclusione dello studio (erano previsti 6 anni e mezzo), era stato deciso di continuare l'osservazione per gli anni seguenti e lo studio osservazionale (EDIC) è tuttora in corso. I risultati più interessanti dello studio DCCT/EDIC, sono la riduzione del rischio cardiovascolare del 42% e degli eventi cardiovascolari maggiori (infarto, ictus e morte cardiovascolare) del 57% (10).
In conclusione, il tentativo di portare la glicemia del diabetico ad un livello prossimo al normale non sembra ridurre gli eventi cardiovascolari nel breve periodo, anzi può rappresentare un rischio, almeno con le terapie attuali. Durata del diabete, entità e rapidità di riduzione dell'HbA1c, stato clinico generale e soprattutto malattie cardiovascolari preesistenti che potrebbero essere precipitate dai frequenti episodi ipoglicemici, sono gli indiziati maggiori che potrebbero giustificare l'inatteso fallimento della terapia intensiva. Sulla base di questi dati, le linee guida per il trattamento del diabete raccomandano un approccio individualizzato e sostanzialmente prudenziale che in generale deve avere come obiettivo un valore di HbA1c intorno al 7% (11). e questo anche se le indagini epidemiologiche collocano un rischio cardiovascolare consistente anche per questi livelli.
HbA1c and coronary heart disease risk among diabetic patients
Zhao W, Katzmarzyk PT, Horswell R, Wang Y, Johnson J, Hu G
Diabetes Care 2014 ;37:428-35
Bibliografia
1. Moran AE et al. Temporal Trends in Ischemic Heart Disease Mortality in 21 World Regions, 1980 to 2010. The Global Burden of Disease 2010 Study. Circulation. 2014;129:1483-1492
2. The Task Force for the management of dyslipidaemias of the European Society of Cardiology (ESC) and the European Atherosclerosis Society (EAS). ESC/EAS Guidelines for the management of dyslipidaemias. Atherosclerosis 2011;217 Suppl 1:1-44
3. Arguedas JA et al. Blood pressure targets for hypertension in people with diabetes mellitus. Cochrane Database Syst Rev. 2013 Oct 30;10:CD008277. doi:10.1002/14651858. CD008277.pub2
4. Zhao W et al. HbA1c and Coronary Heart Disease Risk Among Diabetic Patients. Diabetes Care 2014;37:428-435
5. Currie CJ et al. Survival as a function of HbA1c in people with type 2 diabetes: a retrospective cohort study. Lancet 2010;375:481-489
6. Patel A et al.. Intensive blood glucose control and vascular outcomes in patients with type 2 diabetes. N Engl J Med 2008;358:2560-2572
7. Duckworth W et al. Glucose control and vascular complications in veterans with type 2 diabetes. N Engl J Med. 2009;360:129-139
8. ACCORD Study Group. Effects of intensive glucose lowering in type 2 diabetes. N Engl J Med. 2008;358:2545-59
9. Holman RR et al. 10-Year Follow-up of Intensive Glucose Control in Type 2 Diabetes. N Engl J Med 2008; 359:1577-1589
10. Lachin JM et al. Update on cardiovascular Outcomes at 30 Years of the Diabetes Control and Complications Trial/Epidemiology of Diabetes Interventions and Complications Study. Diabetes Care 2014;37:39-43
11. Inzucchi SE et al. Management of hyperglycemia in type 2 diabetes: A patient-centered approach. Position statement of the American Diabetes Association (ADA) and the European Association for the Study of Diabetes (EASD). Diabetes Care 2012;35:1364-1379
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